venerdì 2 novembre 2012

Quando, nel nome della libertà d’espressione, si vieta la libertà d’espressione (e di fede religiosa)


fonte: www.paneacqua.info,  OTTOBRE - 22 - 2012
di Francesco Medici

Nel marzo del 2004, la Francia ha bandito dalle scuole statali tutti i simboli religiosi, incluso il velo islamico (hijab). Nell’aprile del 2011, ha introdotto una legge che vieta di coprirsi il volto in pubblico, stabilendo, ad esempio, di sanzionare con una multa di 150 euro le donne musulmane che indossano per strada il niqab (velo che lascia intravedere, nella maggior parte dei casi, solo gli occhi). Il mese scorso, il governo francese ha vietato di manifestare a Parigi contro il film anti-islamico “The Innocence of Muslims” (presumibilmente girato negli Stati Uniti e diffuso in forma di trailer su internet) e le caricature del Profeta Maometto pubblicate dal settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Secondo il premier Jean-Marc Ayrault, non c’era «ragione di lasciar entrare nel nostro Paese conflitti che nulla hanno a che vedere con la Francia». Il ministro dell’Istruzione, Vincent Peillon, in difesa di “Charlie Hebdo”, ha aggiunto che «la libertà d’espressione è molto importante per la civiltà occidentale e, come la democrazia, va preservata».
Nella dottrina islamica, il diritto-dovere di manifestare pertiene a quello che, secondo alcuni gruppi musulmani (come gli sciiti), sarebbe, in aggiunta ai cinque canonici – ovvero la testimonianza di fede (shahada), la preghiera (salat), l’elemosina (zakat), il digiuno (sawm) nel mese di ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca (hajj), fino alla Ka‘bah, la casa di Dio –, il sesto pilastro della religione: il cosiddetto “jihad”, comunemente ritenuto un obbligo per tutta la comunità islamica (Umma).

Tradotto impropriamente come «guerra santa», quello del jihad (nome maschile in arabo) – è probabilmente uno dei concetti più fraintesi in Occidente e che, negli insegnamenti dell’Islam, viene citato, secondo alcuni sapienti, con almeno un’ottantina di accezioni differenti. Jihad significa letteralmente «sforzo» per far trionfare la causa di Dio (cioè l’Islam), e può quindi indicare diverse forme di attività. L’ambito più importante è tuttavia quello riguardante la sfera interiore dell’individuo, quello della spiritualità di ogni musulmano. Si parla più propriamente, in questo caso, di «sforzo dell’essere» (jihad al-nafs), così spiegato, ad esempio, da Tariq Ramadan: «Ogni essere umano sente in sé delle forze che si potrebbero definire negative, come la violenza, la collera, la cupidigia ecc. Lo sforzo che si compie per lottare contro dette forze si chiama jihad […] perché rappresenta lo sforzo continuo che ciascuno deve compiere per dominare il proprio essere, per donargli accesso alla sfera superiore dell’umano che cerca Dio con la costante preoccupazione della dignità e dell’equilibrio».

Il jihad è insomma – e soprattutto – la lotta dell’anima contro le tendenze materialistiche dell’io, una rivoluzione del sé per vincere le passionalità terrene. Nel Corano si fa una netta distinzione tra il “jihad maggiore” (al-jihad al-akbar, “grande sforzo”), esercitato da ciascuno all’interno di sé per evolvere ed educare la propria psiche, dal “jihad minore” (al-jihad al-asghar, “piccolo sforzo”), assimilabile al concetto di “guerra difensiva”. Per quanto concerne in particolare il “jihad armato”, il Libro sacro dei musulmani stabilisce chiaramente quanto segue: è un dovere combattere per la causa di Dio, ma solo per legittima difesa, poiché Dio non ama chi aggredisce; occorre combattere contro chi viola i giuramenti; contro ebrei e cristiani abitanti in terre assoggettate all’Islam, ma solo quando non pagano il tributo convenuto; contro chi è ostile al culto di Dio; è proibito muovere guerra per mero desiderio di bottino; in guerra, bisogna rispettare regole precise, limitanti e umanitarie.
Secondo la definizione classica, il musulmano può intraprendere il jihad «con il cuore, con la lingua o con la spada». Il jihad «con la lingua o con la spada» è dunque il “jihad minore”, per così dire, esteriore, comportamentale, cui pertengono attività come scrivere un articolo o un libro, pronunciarsi in un’assemblea o in un programma televisivo, o anche, semplicemente, diffondere la parola di Dio nel proprio quotidiano (ma senza mai obbligare il prossimo a convertirsi, perché, recita il Corano, «non vi è costrizione nella conversione»).

Nel suo saggio “Il Gihàd” (Quaderni Islamici, n. 59, Edizioni del Càlamo, Milano 2009, pp. 15-17), lo Shàikh ‘Abdu-r-Rahmàn (alias Rosario Pasquini), imam della moschea di Segrate (Milano), si sofferma in particolare su quella che, nell’Islam, dovrebbe essere la corretta modalità di prendere parte a un corteo o a una manifestazione. Vale la pena citare il passo quasi per intero: «Partecipare, in modo ordinato e civile, come richiede un’autentica consapevolezza islamica, a manifestazioni di protesta (cortei) contro le aggressioni alla Comunità musulmana, e all’immagine del Profeta Muhàmmad […] è gihàd. La correttezza della parola e la compostezza del comportamento, che sono aspetti formali della personalità islamica, escludono che, durante i cortei di protesta, i manifestanti musulmani urlino insulti, brucino bandiere, si lascino andare ad atteggiamenti sguaiati e si comportino in modo oggettivamente disdicevole. Il comportarsi in modo scomposto, tale da suscitare disprezzo e riprovazione da parte del pubblico che assiste alla manifestazione, non è, certamente, gihàd! È, invece, oggettivamente, un tradimento della causa islamica. […] I cortei di protesta, che sono manifestazioni di massa, devono avere l’obiettivo di richiamare, sulle ragioni della protesta, l’attenzione di coloro che al corteo assistono e di promuoverne la solidarietà».
I fatti di sangue verificatesi lo scorso 11 settembre a Bengasi, con l’uccisione di quattro persone, incluso l’ambasciatore Chris Steven, durante l’aggressione all’ambasciata statunitense in Libia, non sarebbero, dunque, a rigore, jihad, ma meri atti criminosi da leggere in chiave esclusivamente politica e non religiosa. Come affermò il Profeta stesso, infatti, «il più forte non è colui che riduce all’impotenza il suo nemico nella lotta, ma colui che è capace di dominare la sua collera».
Ne deriva che, all’interno di una società democratica, negare ai mujahidin (cioè a coloro che esercitano doverosamente il jihad) di manifestare pacificamente non è, dunque, solo una negazione della libertà d’espressione, ma è anche una grave negazione della libertà religiosa.


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