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domenica 25 novembre 2012

Aforismi: la donna, la femmina e tutto il mondo intorno

Amor che a nullo amato amar perdona







Ormai anche per fare la show-girl ci vuole la raccomandazione. Non basta più il culo.



Le nuove figlie del post-sessantotto hanno trovato la loro massima emancipazione nel modello della velina: si accompagnano agli avvocati, ma guardano il culo ai camerieri.



Le donne, ai tempi delle quota rosa e del post-sessantotto, sono meno emancipate che mai. Bombardate dai modelli mediatici, e concentrate sul lavoro e la competizione, hanno perso il rapporto con il loro corpo e le propri sensazione. Torna allora d'impatto nell'immaginario la figura del maschio dominante, sicuro di sé e che dà sicurezza, vincente, forte. Torna l'età della pietra.




In verità, l'emancipazione femminile non è mai avvenuta. C'è stato qualcos'altro sì, ma non l'emancipazione. Si sono solo assottigliate le differenze sociali, e si è acuita la competizione. La crescita economica ha fatto il resto, ha frullato il tutto. Invece di valorizzare la diversità. E nel frattempo i cuori sono rimasti tali e quali, e piangono più forte.





Il poeta scrive sempre della stessa donna. Lei oscura la visione di tutte le altre.
Il suo pensiero dominante vince su tutto.
Il poeta scrive sempre della stessa donna, che lui lo voglia o no, che lei esista o no.



M'innamoravo di tutto e credevo a tutto...



La donna mente. Sempre.



Così dovrebbe essere la mia donna: santa nella battaglia, selvatica nella preghiera.



La donna ha un problema che non le farà mai vedere i rapporti sentimentali in maniera pura e lucida: deve avere un orgasmo, e deve averlo spesso, altrimenti impazzisce. O ingrassa.



Fra le braccia di certe prostitute ho trovato Dio, e fra le carezze di certe buttane travestite a madonnine ...ho trovato il demonio.



La cosa che potrebbe salvare le sorti di questa civiltà ...è che le donne comprendano affondo, e accolgano, la fragilità degli uomini.



...dolce adolescenza, indescrivibile tenero vero amore. A quei tempi pensavamo d'essere onnipotenti... ed effettivamente... lo eravamo.



Terrorismo d'amore.



Mi pare che nei rapporti 'sentimentali' che vedo intorno a me ognuno cerca nell'altro/a tante e diverse cose: sicurezza, performance, comprensione, piacere, piacevolezza, stabilità economica, intelligenza, prestigio, ascolto, divertimento... e ci si ostina a chiamare tutto questo "amore". Ma mai nessuno che mi parla dell'Anima.



I rapporti di potere sono sempre nutriti dallo scherno e dall'invidia. Non esistono rapporti di potere sani, sono tutti malati. Gli unici rapporti sani sono quelli d'amore. Questo però non significa che la gerarchia e i ruoli non esistano o non servano a niente. Le istituzioni sono occasioni importanti: tutto sta nel far conciliare amore e istituzione.




Una domanda tortura certe mie notti...
...c'è davvero? Dov'è la mia Giovanna D'arco?



Selvatico.



Io, quando m'innamoro, m'innervosisco.



Non-dire, non-fare, non-amare!, soprattutto non-amare!, non-odiare, non-ti-arrabbiare, non-insistere, non-guardare, non-osare, non-salutare, non-esprimere, non-ricordare, non-telefonare!, non-telefonare!, non-scrivere — non-non-non-non. Circondato, braccato dai «non».



Non è tanto la castità del mio corpo che mi pesa. Quanto più la castità dello spirito di certe donne, la loro anima imbarazzata, inibita, rattrappita, che hanno paura a rivelare. 




Il segreto di ogni seduzione: si seduce più facilmente ciò da cui si ama essere sedotti.



L'Amore trasforma le "pietre" in Donne.




Andate dalla mia amata. Correte! Andate tutti a dirle che il mio cuore sospira ancora fremiti eterni. Ditele che ogni suo bacio, ogni sua carezza, ogni suo abbandono, ogni suo silenzio ...sono stati universali. Ditele che Dio sospirava insieme a me mentre la guardavo pieno di gioia, e ditele che tutta la mia rabbia era solo paura di cadere.



Lei disse «Basta! Voglio stare serena! Tu non mi fai stare serena! Io non solo felice». Ma non capiva che le stavo offrendo molto di più: le bufere di passione, gli uragani di follia, gli scontri di stelle luccicanti, le esplosioni altissime e bassissime di tutto il mio amore per lei. Ma lei cercava la «serenità».



Come sei bella, amore mio. Anche nella crudeltà della tua lontananza, e nella paura che si cela dietro i tuoi silenzi di ghiaccio, e nella rabbia poi, come sei bellissima nella rabbia.












mercoledì 27 giugno 2012

"Inedito erotico" di Paolo Steffan [giugno 2012]

di Paolo Steffan

Propongo qui un raro nucleo recente. Oramai le mie esigenze espressive, se ancora qualche volta al beneficio dell'a-capo riesco ad appendermi, tendono a stabilirsi o, meglio, a sussultare nei terreni sudati della sessualità, come unica vera «insensata ratio» del nostro vivere e cura al male che ne è insito.
In queste aree così buie e private, intime, non può dirsi sufficientemente espressiva la lingua ufficiale, che ha dunque il bisogno estremo - qua e là - di farsi intima, solo di chi scrive, il quale è costretto dunque ad avvalersi di forme non ufficiali, come testimonia qui il verbo-chiave «inumidarsi», venuto così, come si viene, e con tutta la rete di intime e meno intime suggestioni che ne possono - a mio modesto parere - venire.

a C.

nessun barbaglio. ma più che d'un sole
barbagliante di sola luce d'occhi
tra i seni chiari nella pelle scura
ho smaniato di smania di parole

tue, sulle mie, tutte ebbre di silenzio
e di baciarti: labbra, guancia, collo,
e ancora pelle e denti e naso e mani
e lingua che ci illumina e ci inumida.

 La "mia" bocca (foto di Paolo Steffan)

mercoledì 30 maggio 2012

Giorgio Caproni e il XXI secolo, di Jacopo Ricciardi



Nella poesia Anticipo dell’ultima raccolta Res Amissa Giorgio Caproni scrive: “Ancora non era morto. / Ma già aveva accesa in mente / la cecità del veggente.” 
Il poeta scopre che è possibile accedere a uno stato di veggenza in un tempo prossimo alla morte, come se, all'individuo che si avvicina alla propria fine, fosse rivelato qualcosa. Ma cosa? Caproni afferma che sia la propria immutabile condizione di morente. Perché questa condizione può definirsi veggenza? Perché avere coscienza della propria condizione di morente può dirsi veggenza? Ogni veggenza è cieca poiché mette in contatto chi la possiede con una propria esperienza personale non trasmissibile – descrivibile forse, ma non comunicabile come esperienza viva. Ma la cecità di Caproni è doppia, come rafforzata, invincibile, granitica, poiché l’attore principale non è ‘la veggenza’, ossia l’immagine che da fuori si riceve, ma invece la cecità stessa, che si scava nella mente dell’individuo paralizzato nella sua condizione ultima, nella vita alle porte della morte.
Caproni con il titolo Anticipo accende e spegne immediatamente la possibilità di una visione post-mortem. Questa viene istantaneamente risucchiata nell'assenza di tale visione, catalogabile come impossibile. È quindi pietrificata nella vita una visione cieca, che è l’unica realtà, l’unico dono che l’individuo può ricevere, e lo può ricevere da sé soltanto. Ma questa condizione è tanto ambigua quanto inequivocabile. È quindi una condizione sfuggente ma concreta, e può essere osservata, ma mai del tutto dominata. 
Ogni poesia di Res Amissa riesce a fermare un grado essenziale di quella condizione, ma non a focalizzarne il fuoco.

Ecco un’altra breve poesia di Res Amissa, Clausola, che descrive lo stesso tema ma da una differente angolazione, si passa dalla percezione alla retorica: “Tanto per non finire: / la morte, già così allegra a viverla, / ora la dovrei morire? // (Non me la sento, d’ucciderla.)”
Il poeta si chiede se esiste il morire della morte al finire ancora vivo della vita, se il poterlo dire chiaramente in un’espressione verbale possa bastare a determinarlo come reale, come condizione estrema e vivibile. A Caproni basta l’ambiguità del possibile e mai certo. Definisce in questo modo la zona della condizione estrema dell’individuo. Il lettore, grazie a queste poesie, sembra poter toccare il suo fondo e scoprire una nuova apertura che, anche se in negativo, può riaccedere in futuro a una dimensione umana e generale non più solo individuale. 
Ecco allora la poesia Due tempi dell’indicativo: “Ormai superato nel vuoto / il più futuro futuro, / già ho stanza nel trapassato / più trapassato e remoto?” Qui il poeta si chiede se l’essere nell'estremo futuro e nell'estremo passato siano raccolti nel medesimo tempo, riportandolo a una forma originaria e originale del sé. 
Vorrei insistere su questo punto. Nell'opera di Caproni e nella sua ultima raccolta in particolare esiste una tensione di riscoperta della Vita. Per Caproni Res Amissa è la cosa perduta che non si riesce a trovare, che forse esiste e che non deve essere trovata. È la Vita stessa ad essere persa. E il poeta ci dice che questo è ciò che accade oggi: la Vita perduta che eternamente deve essere recuperata.
Ogni poesia di Res Amissa si avvicina a quel centro inafferrabile come l’ombra proiettata di quel luogo. Il suo lavoro consiste nel togliere lo spazio che ci separa da noi stessi. 
Caproni vive quest’esperienza nella breve scena della poesia Scaffalature: “Guardavo le scaffalature. / Il ricco assortimento. / Guardavo nella bruna penombra / quasi claustrale, l’ombra / che in piedi m’interrogava.” Egli diventa la proiezione di un’ombra e l’ombra il tutto residuale di un’anima e di un destino. La penombra che racchiude la scena opera uno svuotamento in cui appare il residuo di un individuo.
La Vita che abita nell'individuo non ha più filtri, e può essere toccata direttamente. Questa reale consistenza si mostra alla mente e non più agli occhi. Siamo alla radice nuda dello stato vivente di un individuo. 
Nella poesia La barriera lo spazio si sdoppia, si ripete e si annulla isolando la presenza umana, che resta sola cosa esistente: “Quello che tu, mio vecchio, / scorgi oltre frontiera / è quanto è qua. //La barriera / - non te ne accorgi? – è uno specchio.”
Ecco il miracolo di Caproni – non è un’esagerazione, ma esattamente ciò che accade -, egli permette il contatto con la nuda essenza alla base della mente e del pensiero. Egli riempie il mondo ormai svuotato con un seme nudo, reale, chiuso nell'identità di un singolo, di ogni singolo essere umano. Egli crea una trasmissione potenziale, ritrovata, nella marea umana, una forza personale che può riacquisire un linguaggio comune, ricostruito, reinventato, inequivocabile. 
Caproni crea già la sostanza della cultura e della poesia del XXI secolo, e ne avverte l’architettura, il suo peso radicale che nasce nella persona. 
Una quartina senza titolo lo afferma chiaramente: “Ahi mia voce, mia voce. / Occlusa. Rinserrata. / Anche se per legame / musaico armonizzata.” Lo spazio, la pausa di tempo che frammenta e smonta la composizione è in Caproni ‘armonizzata’, cioè fedele a una costruzione il cui fine è sconosciuto, ma che sente in sé il compiersi di un accordo. 
Egli riporta il Bene – termine che lui stesso ha usato a commento di Res Amissa - oltre la porta del suo tempo.




L'artista e poeta Jacopo Ricciardi ci ha affidato questo testo in memoria di Giorgio Caproni, esposto durante il suo intervento del 23 maggio presso la Biblioteca Guglielmo Marconi di Roma, per il centenario della nascita del poeta. La Biblioteca, che dal 2006 ospita la preziosa raccolta dei suoi libri, ha voluto onorarne il ricordo con diverse iniziative: una mostra e un incontro per raccontare il profondo legame di Caproni con la città, letture per ascoltare i suoi versi, documentari per trasmetterne un’immagine intensa e laboratori di poesia per i più piccoli. Il progetto è stato ideato e curato da Elisa Donzelli. Sono intervenuti anche Biancamaria Frabotta, Fulvio Stacchetti, Pamela Di Lodovico, e i figli Attilio Mauro e Silvana Caproni.

domenica 11 dicembre 2011

Monologo dell'anima, di Patrizia Garofalo


Cammino sentendo l’anima vuota. La porto sulle spalle dentro un sacco di juta, non pesa niente e nemmeno i ricordi hanno più il sapore dolciastro del sangue e della nostalgia.

Non mi chiedo chi mi abbia resa così orfana di tutto e non cerco neanche di rimandare al cuore la canzone della vita con cui ero partita. Sapevo che le favole muoiono fin da quando mettevo ad essiccare nelle pagine del mio diario i fiori che mi regalavano. Li ritrovavo belli, distesi, un po’ più pallidi, insomma erano morti per emorragia di reato compiuto dolosamente da parte di chi me li aveva confezionati per una ricorrenza e per la mia stupidità di pensare che si sarebbero meglio mantenuti.

Erano senza vita invece proprio nell’attimo in cui volevo avessero il nome di chi li aveva donati, avevano dato tutta la linfa che possedevano ed erano finiti dolorosamente estenuati da un’agonia non prevista. Perché nessuno aveva previsto quella morte, ma adesso ricordo bene come ogni volta che li rivedevo immaginavo un cimitero di farfalle .

Appoggio sul muretto la sacca vuota e anche questo pensiero scompare. Mi piacciono da sempre le mura screpolate dei vicoli vecchi di anni, pensieri, impronte e bisbigli. Le parole tornano, innamorate e segrete, complici e impaurite, sbigottite e censurate. Le mie mani bianche avvertono nelle rughe della pietra le stagioni dell’amore e dell’odio, non le percepisco come sentimenti ma ombre di una vita che non mi appartiene più e che sto restituendo piano piano all’indifferenza, forse la vera responsabile dell’orrida votezza dell’anima mia sdraiata nella sacca e dimentica del pur minimo accenno di presenza.

Il corpo invece lo sento, tutto proprio tutto, nessuno lo vede ma è come se lo avessi ingoiato e mi stesse scoppiando dentro. Riesco solo a carezzare i capelli e prendermi la testa, la stringo e l’abbraccio, la riabbraccio come per una ninna nanna ma sente troppo dolore, la cura delle parole non arriva, sento che esse graffiano i muri di una casa di pietra dove ho deposto l’anima e faticano a raggiungermi. Quando arrivano sono esauste, macchiate, inzuppate d’acqua e di sangue.

Scompaiono ogni volta che tentano di parlare, si esauriscono in dolenti suoni come di chitarre scordate, sono abusate, stuprate, violentate e hanno occhi enormi, le parole … tanti occhi e senza accorgermene stringo più forte la mia testa perché non le veda e sciolgo i capelli in modo che coprano il viso. Mi sento più leggera ora e vedo la sacca dell’anima piangere, il corpo mi fa meno male. Infilo le lacrime a guisa di collana e ne faccio una corda più resistente per sollevarmi e riprendere il fagotto del mio corpo che grava come quando un dolore insiste sul petto, anzi più in alto come se mi soffocasse o tagliasse la gola. E mi appare ancora il camposanto di fiori e farfalle dove anch'io riposo.


Scritto dall'autrice per Meredith, il 23 dicembre 2009


Foto di M. B.

martedì 23 agosto 2011

Le parole di un amico lontano


Nelle gocce del tempo,
che inesorabilmente cadono
si riflette la frenetica corsa
di uomini che non sanno nuotare.


Mario Cataldo