giovedì 8 dicembre 2011

Un mare di larici rossi. Versi di Jacopo Ricciardi



Da "UN MONDO PRIVATO"

Perdonami di non poterti lasciare andare
ancora, sotto a questo cielo
risalendo con gli occhi la sua luce, alla sua prima luce
per me,
lì dove tutto si abbandona.
E tu dici,
impara ad essere chiamato dal mondo, impara
come esso ti chiama, impara quella sola cosa che tu sei
e vivi, vivi crescendo, e sappi aspettare, ma cammina
cammina sempre, e fermati quando saprai di doverti pensare,
allora ama se devi amare, e scrivi se devi scrivere,

sposati,
infine, se riuscirai a farlo.

*

Il cielo si attacca alla tua tunica, il
tessuto lo strappa via al cielo
e chiami per me una guerra.
Porti le mani ai due estremi del mondo
e apri i tuoi occhi di luna e di terra
e penetro nel terreno come una radice
e mi sposo col passo delle stelle
mosso sul volto di ogni cosa
e mi sposo col volo delle stelle
con la tua tunica quasi rosa.

*

Sembra uno scherzo, nevica nel deserto
una nuvola soffocante, l'estasi bagna la piuma,
la rende pesante, nella mia gola mi strozza
pulisce ogni parola, invento un deserto
che scivola sotto la città, la sommerge
e la raffredda, sempre nella mia gola,
soffoca la nuvola ancora
e per scherzo: un abbaio: un silenzio.

*

Mi lasci qui, morto, nella tomba
di una foresta di ulivi
con nella mente un mare di larici rossi
e decapitati di luce mentre la neve cade
e si intromette all'argento e forma
lo spessore del mio volto ancora acceso
e nella posizione giusta ormai il cane
che abbaia ed è uno scoppio cardiaco
che soltanto di poco sposta la cima di questa neve,
ma lì, amico mio, lì, io sento il cielo,
l'inizio delle tenui parole
che chiudono le mie palpebre
al dolce primo riposo di luna, per me.

*

[La sepoltura]

Sotterro me stesso, con, sopra di me, il cielo,
e la terra rossa sotto di me,
e il canto degli uccelli entra e esce dai fogliami.
La mia morte verrà ricordata dalle stelle
perché io solo posso scrivere durante la mia morte,
io solo mi sotterro nel tempo, per questa vita,
io solo, con gli occhi aperti, non smetto di guardare
la struggente verità, io solo, nella morte, da questa vita.

*

"tu puoi scrivere della tua propria morte?
La scrittura è la tua morte? Allora scrivi,
scrivi e vivi, se è questo che vuoi, se è solo questo che sai fare.
Tu stesso vedrai quello che ne sarà di te.
Se è giunta la tua ora, e se davvero questa morte
ha più senso di quell'altra, allora anch'io
ascolterò cos'hai da dire, anch'io
vivrò ancora, se, davvero, tu, potrai morire, ora,
secondo la fatica delle stelle, e del cielo,
della terra, e di ogni sua trasformata visione."

*

Ti lascio questa paura, un tremore abissale
come un vento leggero, che muove la piuma del viso,
e quasi la sfoglia, e, quasi, la legge: io.
Questa, pensa, sai, la bevo, la mangio avidamente
per coltivare, coi raggi del sole, la nostra fedeltà.



Le sette poesie sono state scelte da Un mondo privato,
dell'Almanacco dello specchio 2010-2011, Mondadori.

La Parola evocativa e visionaria di Jacopo Ricciardi è vissuta, e perciò densa, pregna di senso sotto la pelle, la sua corteccia: nella foresta di larici rossi il poeta ci conduce attraverso immagini nitide, della natura tangibile che circonda l'uomo, in antitesi con l'irrealtà della stessa visione. Visione che si fa preghiera, nell'accezione di esame profondo del proprio io. L'autore imposta un dialogo verticale tra il cielo atteso, non strettamente nel significato cristiano del termine, bensì nella funzione di un ubi pacifico e definitivo, un orizzonte sopraelevato a cui aspirare. Il cammino tra gli alti fusti dei larici e l'atmosfera ombrosa a tratti illuminata dai raggi del sole che evitano la barriera del fogliame, attraversa la mente e i suoi processi linguistici che si fanno forma, uno stile privato quanto lo stesso mondo interiore: soprattutto le parole ad inizio e a fine verso - non sempre utilizzate in qualità di enjambement - , e la punteggiatura, sono ganci dosati con precisione, punti metallici che rallentano o rendono più fluido il discorso. Ricciardi non "sbava di una virgola", si appoggia a queste pause mentali quando l'introspezione ha bisogno di "tirare fiato" e riprendere vigore.
La sepoltura diventa un rito nell'armonia del tutto e la morte non è altro che l'eterno ritorno al fluire del tempo, insieme al resto della materia vivente che ci accompagna. Resiste la paura, quella che uccide l'uomo intanto che salva l'animale; la paura ancestrale di cui si è nutrito l'istinto di sopravvivenza, ma che non consente alla ragione una caverna, delle certezze. Allo stesso modo il rischio di volgersi verso una fedeltà, una fides nell'imperscrutabile. "La scrittura è la tua morte?" - il verso che trascina nell'imbuto il lettore - "sì", pare sottintendere la domanda, siccome, alternandosi alla vita, la scrittura impone delle radici artefatte, dei cristalli piantati nell'aridità della sabbia (come sosterebbe più di un Poeta modernista) e ferma il nostro moto, snaturandolo ... ma "allora scrivi, / scrivi e vivi, / se è questo che vuoi, / se è solo questo che sai fare", uomo.

M.B.



Il Cristo nel vecchio larice


Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.




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