Ho paura. Mi sto ammalando, lo sento. Non capisco se ho paura perché mi sto ammalando, o viceversa. No, forse mi sto ammalando di paura. La colpa è della città in cui vivo. Sono Loro che mi hanno fatto ammalare. Loro e nessun altro. E’ stata una strategia lenta e ben pianificata, fatta di messaggi sottesi, di segnali impliciti, di sussurri, di bisbigli, persino di semplici occhiate. All’inizio era solo dubbio, incertezza. Poi timore, poi ansia, agitazione. Si è passati allo spavento. E ora alla paura. Io ho paura, per colpa Loro, che hanno diffuso la malattia, e ora nessuno può salvarsi. Ad uno ad uno cadiamo vittime della loro trappola, ma senza accorgercene. Dolcemente. Un po’ come gli annegati. Hanno usato ogni mezzo a loro disposizione: giornali, televisioni, radio. Hanno deciso quali libri fare uscire in base a quanta paura potessero generare. Le notizie sono selezionate con cura in modo da terrorizzarci. Le pubblicità stesse sono diventate spaventose. Ci inviano immagini, suoni, frasi che ci terrorizzano. I nostri stessi figli vengono educati alla paura. Sono diventati insicuri, tristi, e spaventati. Come noi; sono le nostre copie e ci assomigliano, terribilmente. Niente è più innocuo ormai; abbiamo paura di tutto. Io ho paura di tutto. Non uso più la bicicletta, gli incidenti stradali fanno ogni giorno dodici vittime di media; della macchina neppure se ne parla. Non uso i mezzi pubblici, troppi incidenti, troppi attentati. Non viaggio, a partire si finisce sempre male. Non frequento più i luoghi affollati; evito piazze, chiese, ristoranti, il contagio è dietro l’angolo. Mangio solo ciò che è chiuso, impacchettato, imbustato, sterilizzato, trattato, selezionato: non voglio certo morire avvelenato dall’erba del vicino. Non invito più nessuno a casa da anni, ormai: gli omicidi più efferati sono sempre consumati in famiglia o tra conoscenti. Non rientro mai più tardi delle sette, ma solo a causa del mio lavoro, altrimenti tornerei anche prima. Ho paura ad attraversare la strada, a rispondere al telefono, ad aprire la posta. Tutto mi minaccia. Tutto mi spaventa. Tutto per colpa Loro. Così mi hanno insegnato e così ora vivo. Sono solo e ho paura anche di questo. Ho paura di me stesso, del mio riflesso allo specchio, perché anch’io, l’hanno detto Loro, sono potenzialmente pericoloso. Nulla è come sembra, ognuno è pericoloso, ognuno è sospetto, ognuno va sorvegliato. A fatica ricordo come stavano le cose prima che arrivassero Loro, quelli che lavorano nella sala del consiglio della nostra città. Sono stati Loro a mettere in atto tutto questo, e adesso, dopo che ci hanno trasformato così subdolamente, si trovano a governare su una città ossequiosa, inerme, che li implora in ginocchio di proteggerla. Ci tengono in pugno, intrappolandoci in una rete che noi stessi ci siamo preoccupati di tessere.
Ma da qualche giorno mi si è acceso qualcosa dentro, come un moto di rivolta; un grido, alto e doloroso che mi ha levato il sonno per diverse notti di seguito. Non posso più accettare questo sopruso, devo reagire. In qualunque modo.
Tanto per cominciare ho comprato una pistola. Non so ancora bene cosa farne, anche se un’idea la sto coltivando. Ci pensavo qualche giorno fa: o si ha paura o si è paura. Non c’è soluzione. O sei vittima o carnefice. E’ così che funziona, solo così posso pensare di guarire, di salvarmi. O si ha paura o si è paura, il gioco è tutto qui. Quando capii questo mi sembrò di aver aperto uno scrigno antico; di aver svegliato qualcosa di me che sempre sapevo, ma che era stato in qualche modo nascosto. Provai un brivido di paura ed eccitazione. Sapevo come guarire, come liberarmi dalla paura: sarei diventato paura. Presi la pistola, mi vestii in fretta e, nonostante il sole fosse già basso, uscii di casa. Camminavo al ritmo dei miei pensieri, che si erano fatti, improvvisamente velocissimi. A tratti mi mancava il respiro. Uno sparo. Uno solo. Sarebbe certo bastato. Non è poi così difficile morire. E’ un attimo. Nessuno si sarebbe accorto, nessuno avrebbe visto, nessuno avrebbe sentito. Nessuno nessuno nessuno. Uno più uno meno, chi avrebbe notato la differenza. E poi mica era per niente, in qualche modo dovevo pur guarire. Va al di là del bene o del male, è istinto, e l’istinto non è certo una colpa.
Camminavo veloce, mancava poco che corressi. Stringevo il revolver che portavo in tasca della giacca. Avevo paura che scivolasse fuori, che scomparisse. Avevo paura di averla lasciata in casa; avevo paura che sparasse accidentalmente. La gente mi passava accanto. In ogni sguardo mi sembrava di leggere sospetto, malizia, supponenza. Mi sentivo passato da parte a parte, come se fossi stato nudo, come se fossi stato aria. La pistola era diventata pesantissima. Mi misi in cerca. Iniziai a guardarmi attorno senza smettere di camminare, evitando di incrociare gli sguardi degli altri. Non sapevo in base a cosa avrei scelto, non mi ero neanche figurato l’aspetto della mia vittima. Non cercavo qualcuno in particolare. La folla intanto passava, sorda, distratta e continua. Avevo davanti a me una mamma con un bambino insolitamente tranquillo. Mi superò una coppia di fidanzati. Camminavano per mano. Avevano la stessa andatura. Lei non era bella, ma il suo viso emanava qualcosa di ipnotico. Lui parlava, anche troppo e con un’inflessione odiosa. No, mi serviva una persona sola. Al lato della strada un netturbino stava raccogliendo una cartaccia; nel suo gesto si leggeva l’impronta di migliaia di gesti uguali a quello. Un uomo con la ventiquattr’ore stava attraversando la strada in quel momento. Parlava concitatamente al telefono di transizioni, detrazioni sul resto, interessi percentuali. Troppi, erano troppi. Come scegliere. Erano tutti uguali. Nessuno sembrava avere la morte addosso. Cinquanta passi davanti a me un uomo girò a destra entrando in una via laterale. Lo vidi quasi di sfuggita. Il segnale che aspettavo. Girai anch’io. Era un uomo basso, pelato, solo. Non avrei saputo dargli un nome, un’età, un mestiere, una vita. Era un nessuno. Era il Nessuno che dovevo uccidere, che mi avrebbe liberato. Aumentai il passo. Dovevo raggiungerlo prima che ritornasse in una via affollata. Eravamo vicini ormai. Si era certamente reso conto che volevo raggiungerlo: anche se impercettibilmente aveva già girato due volte la testa, per vedere quanto fossi distante. Aveva paura, lo sentivo, ne avrei avuta anch’io. Gli stavano sicuramente tornando alla mente tutte le notizie di omicidio, di violenza, di rapine. Gli ero dietro. “Scusi” dissi, toccandogli la spalla “mi sa mica dire che ore sono?”. Si voltò di scatto, pronto ad urlare. Alla mia richiesta la faccia si contrasse in un sorriso forzato, che tentava di nascondere una paura feroce.” Ma certo,” scoprì l’orologio da polso “sono le otto e ventiset..”. I minuti gli rimasero in gola. Cadde senza fare rumore, con un unico movimento, compatto. Dal foro usciva un rigagnolo di sangue che macchiava il cappotto. Rimisi la pistola in tasca e uscii di corsa dalla via. L’avevo fatto. Ce l’avevo fatta. Avevo superato l’ostacolo. Era stato facile. Più del previsto. E già mi sentivo guarito. Mi sentivo forte, grande, potente. Mi sentivo Dio. Correvo leggero, senza fatica, come se volassi. Percorsi il viale principale tutto d’un fiato. Dovevo sembrare giovane, vincente, addirittura bello. La prima cosa da fare, ora, era lasciare la città, e iniziare finalmente a vivere, per la prima volta. Imboccai il viottolo che portava verso casa mia. Ero guarito, per davvero. Non avevo più paura. Ero libero. Aveva funzionato, ma ne ero certo, doveva funzionare. Rallentai. Mi volevo godere l’odore freddo della sera. Erano anni che non camminavo dopo il tramonto. Non mi ricordavo quasi più come si facesse. La luna era già alta, e qualche stella stava spuntando proprio ora. Che meraviglia. Finalmente la luna. Senza vetri, inferriate, cancelli, serrande, lucchetti, persiane, scuri, porta, antifurto. Solo la luna.
Ad un tratto, dietro di me sentii dei passi. Erano passi brevi, veloci. Verso di me. Non smisi di camminare. Girai appena la testa e vidi un uomo. Era alto, magro e pallido, ma non ci giurerei. Aumentai il passo, misurando la distanza tra me e lui. Mi girai di nuovo. Era vicino, potevo distinguere i tratti del viso. Era teso. Non smetteva di guardarmi. Sentii, in mezzo al torace nascere una specie di calore. Con mia grande sorpresa lo riconobbi familiare. No. Non poteva essere. No, in nessun modo. Io ero guarito. Avevo fatto tutto come doveva essere fatto. Ero per forza guarito. Per forza. “Scusi”. mi toccò una spalla. Mi voltai, e me lo trovai di fronte. Era davvero pallido. La sua mano era ancora sulla mia spalla. Tremava. Lo guardai negli occhi. Mi guardavano come da lontano. Mi fissavano ma non vedevano me, vedevano qualcos’altro. Percepii un’insolita intesa con quegli occhi sconosciuti. Gli sorrisi. L’altra mano la teneva in tasca. “Mi sa mica dire che ore sono?”. Mi fece ridere il pensiero di aver lasciato sul comodino il mio orologio da polso.
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