di Eugenia Gobbo
Carissimi
affezionati lettori,
rieccoci fra le vostre mani. È inverno e con esso – contrariamente alle
tendenze naturali – sono sbocciate nuove rubriche, piccoli fiori. Abbiamo colto
l’opportunità di estendere i nostri interessi – e con essi la possibilità di
incuriosirvi – a nuovi argomenti: da un lato ci siamo aperti alla pista
psichedelica della letteratura contemporanea (che secondo la nostra arbitraria
e pragmatica visione coincide con gli autori “quelli ancora vivi”) e dall’altro
ci siamo rifugiati nell’incantato giardino della letteratura medievale (che non
ci rassegniamo poi troppo a guardare con occhio clinico). Ma non è tutto. Su
questa sfaccettata raccolta di scritti si sono innestate anche altre inedite
proposte: Musiché, una rubrica di
musica classica, e Cinebreakfast, uno
spazio dedicato al cinema. Il nostro intento è sempre lo stesso (ma lo
ripetiamo per gli assenti): attirare voi solitari pianeti e farvi gravitare
vicino, rendervi partecipi della nostra costellazione o scorgervi comete sfuggenti
nel nostro cielo. La collisione dite? Noi ci vediamo solo scintille.
Parallelamente non smettiamo di riflettere sul nostro lavoro, su
quest’impegno che vuol essere sempre meno disimpegnato ma che nondimeno si
scontra ogni giorno sulla roccia impietosa della quotidiana necessità, della necessaria
convivenza, della convivente sopravvivenza. Esageriamo? Non lo crediamo poi troppo;
se da un lato sta un problema meramente economico (ci stiamo autofinanziando da
quasi un anno ormai, questo va detto), dall’altro emerge un problema di natura
diversa: una collocazione del nostro scrivere entro il vastissimo e sempre più
discutibile campo delle pubblicazioni contemporanee. Oggigiorno lo scrivere è
alla portata di tutti, ma se la creatività è la misura dell’umano, perché
questo crescendo incessante di carta stampata non rende un poco più appagato
ogni singolo uomo e un soffio più sereno questo sovraccarico mondo? Se si
scrive: di cosa si scrive, in che modo si scrive e in che modo andrebbe
scritto?
Ed è così che il nostro incontrarci – tanto quanto il vostro attendervi –
è costantemente minato da queste problematicità e venato da questi
interrogativi, i quali però non ci sembra debbano rimanere intentati se è vero
che «l'errore è in ciò che non si è
fatto, nella diffidenza che fece esitare»[1].
[1]
Ezra Pound, Canti Pisani, LXXXI, in I
Cantos secondo la traduzione letta da Pasolini nell’intervista allo stesso del
1967.
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